Diciotto capolavori per Palermo

Diciotto capolavori per Palermo

Messina ha spesso rivolto il suo sguardo alla Grecia per ritrovare un calore simile a quello della sua Sicilia cui ha dedicato, con sentimento e nostalgia, alcuni suoi versi. Le poesie in omaggio a Linguaglossa, al Mediterraneo, ai suoi frutti e ai suoi profumi sono opere che l’artista ha amato forse ancor più della scultura perché, se il mestiere dello scalpellino poteva essere appreso dagli artigiani del cimitero di Staglieno, a Genova, dove Messina era cresciuto, quello del poeta rimaneva per lui il lavoro dell’intellettuale, una chimera avvicinabile solo grazie alla comprensione e all'amicizia degli scrittori e dei critici che gli furono compagni di vita e che lo sostennero in questo esercizio: Alfonso Gatto, Salvatore Quasimodo, Vincenzo Cardarelli. Messina espose i loro busti alla Biennale del 1942, dove vinse il Premio Internazionale della Scultura.

È questo momento culminate di una già allora lunga carriera, i cui inizi sono documentati in mostra dalla Testa di giovinetta del 1929, una delle sue muliebri figure senza tempo che compendia la naturalezza della ritrattistica antica con l’incanto metafisico del Novecento. In quello stesso 1929, Messina realizza a Milano la sua prima personale con una presentazione di Carlo Carrà: l’attenzione all'antico è già una componete essenziale del suo naturalismo.

Tra le ambizioni dell’artista è evidente anche il desiderio di misurarsi con i capolavori del Quattro e del Cinquecento e di farsi promotore di una nuova stagione classica nella contemporaneità. Non va infatti dimenticato che Messina conservava nel suo studio-museo milanese un calco della Pietà Rondanini di Michelangelo: la videointervista di Anna Zanoli, che costituisce una puntata del programma di RAI2 Io e... del 1973, documenta l’ammirazione e l’attenzione empatica con cui Messina ne indagava la superficie, ne studiava i sottoquadri e ne intuiva le intenzioni cercando, come Michelangelo, di rinnovare, portandola alla massima intensità espressiva, l’arte somma della scultura.

Messina ha sfrondato la molteplicità dei temi in pochi argomenti su cui ha concentrato la ricerca di una vita.

La figurazione è per lui una scelta sfidante, non vi è nulla di semplice nel tentativo di infondere la vita nelle sue figure. Siano esse modellate nella creta o nel gesso, raramente scolpite, sempre rifinite cromaticamente con la sapiente patinatura del bronzo o con la cromia del colore vero e proprio dipinto sulla loro superficie, come nella tradizione della scultura policroma greca.

Le sue opere dipinte, così come il gusto per il frammento, evocano una idea di classicità che per tutta l’attività di Messina si rivela elemento sostanziale del suo lavoro e oggi, a distanza di anni, un vocabolario di forme che conferisce alle opere dello scultore un ruolo di ponte tra antico e contemporaneità. Lo si vede nel naturalismo dei piccoli Pugili del 1956 e del Toro del 1976, nei frammenti antichi nel cuore del Novecento, nel Narciso del ’45 e nell’ Efebo del ’59, nella risoluzione grafica del Grande torso femminile del 1970.

In queste ultime opere è svolta la poetica del reperto che mantiene nell’ interruzione più di una continuità: quella con il modello, di cui conserva il vigore, con la memoria dei kouroi greci, di cui conservano la levigata bellezza, con la narrazione tragica ellenistica, di cui riecheggiano il pathos, nella modernità che compendia il paradosso della figurazione del corpo umano acefalo e mutilo con l’astrazione della forma lacerata, perduta, segnata nelle superfici e sempre ricolma di vuoto.

La sfida dello scultore rimane anche qui la rappresentazione della vita: modellare un metallo per suggerire il calore di un corpo, rendere il dinamismo di una corsa nella rappresentazione di un cavallo, la leggiadria di un passo di danza nell’ equilibrio temporaneo di una posa.

Ogni opera è un frammento di esistenza fissato per sempre nella instabilità del momento; manifestazione nella forma dell’unicità della vita che si palesa in ogni azione scelta dall’ artista nella tensione muscolare che è manifestazione tangibile dell’essere vivente.

Nella prima idea del 1958 per il Cavallo che diventerà emblema della RAI la ricerca rimane orientata allo stesso obiettivo, quello di infondere energia all’ inerzia della materia, lasciando a vista le tracce del gesto della modellazione a significare quanto anche il lavoro, di cui la scultura è risultato, debba rimanere a imperitura memoria nella superficie del bronzo come evidenza di un tormentato processo espressivo. Lo stesso dicasi per lo Stallone del 1979, steso a terra, nello spasmo del dolore per la rovinosa caduta da cui con notevole sforzo tenta inutilmente di rialzarsi. La resa non è contemplata, nelle sculture di Messina la tensione dell’essere vivente prevale sempre, anche sulla ineluttabilità della morte. I cavalli di Messina non hanno bisogno di alcun cavaliere: diversamente da quelli di Marino Marini, non sono componenti di una relazione con l’uomo che li doma o che ne viene disarcionato, hanno già in sé il senso della tragedia, della disperazione, della forza.

Ogni cavallo è quindi espressione di un moto che corrisponde a uno stato dell’animo, tutti insieme compongono una teoria di variazioni che ricorda una crono-sequenza di Muybridge. Se il fotografo ferma la vita in una successione di fotogrammi, Messina ne moltiplica le visioni in una varietà di movimenti che si raccordano le une alle altre, come fotogrammi scomposti.

Una ininterrotta serie di variazioni fa danzare anche la serie delle ballerine. L’esito della ricerca sull’ espressività del movimento emerge nelle loro pose ardite, alla ricerca di un punto di equilibrio che lascia però sempre avvertire la tensione che è nel controllo di una posa o nel sollievo di un momento di riposo. Messina, come nuovo Pigmalione, non vuole che le sue sculture si animino, ma pretende la reversibilità del processo, vuole infondere al bronzo, dove perdura come materia pulsante, la vita dei suoi modelli.

È questa la ricerca della tradizione classica che attraverso i secoli arriva immutata e ammirata agli scultori di oggi. La semplicità linguistica che è nella figurazione naturalistica è ancora per molti artisti una provocazione o una tentazione. Messina non indulge nel racconto e non sconfina nell’ espressionismo, ma si concentra sull’ obiettivo di rivelare quanto vi sia di più immateriale: la vita nella scultura. Molti giovani scultori hanno quindi cercato di riconoscere con interesse i talenti e i segreti della vitalità delle sue opere. Con il maestro hanno in comune l’obiettivo di restituire all’arte della scultura la forza e il compito di una lingua viva.

 

(Testo di Maria Fratelli)

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